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Ingresso di don Manfredi Poilucci nella parrocchia di San Giuseppe presso gli Ospedali/ASUGI di Trieste


DIOCESI DI TRIESTE


Ingresso di don Manfredi Poilucci come Parroco - Cappellano ospedaliero della Parrocchia San Giuseppe presso gli Ospedali/ASUGI di Trieste


✠ Enrico Trevisi


5 ottobre 2025



Siamo servi inutili… (Lc 17,10).

L’espressione è di difficile comprensione. Interpreto che siamo servi senza-utili, cioè che non abbiamo profitti e recriminazioni da avanzare, ma semplicemente votati al servizio. Un servizio che in sé e assai utile, assai prezioso. Non abbiamo alcun profitto… se non rendere gloria a Dio e amare i nostri fratelli, come ci ha insegnato Gesù.
Siamo chiamati ad essere segni della premura di Dio per i fratelli.
E in questo contesto ospedaliero siamo chiamati ad esprimere la premura di Dio verso i fratelli che Gesù predilige: quante volte lo vediamo in mezzo agli ammalti o addirittura nelle loro camere, al loro letto. I fratelli deboli, malati sono destinatari di uno speciale zelo apostolico: sono inquieti perché la malattia è presagio di cattivi pensieri, rischia di spegnere la speranza, di affievolire la brillantezza della vita.
Sperimentano il disorientamento che Abacuc dice nella prima lettura: Signore perché imploro aiuto e non ascolti? Perché grido a te e non mi salvi? Perché resti spettatore mentre sono oppresso (Ab 1,2-3).

Accanto alla cura e alla competenza dei medici, servono persone (anzitutto pastori, ma che sanno aggregare anche altri, smuovere l’intera comunità) che sappiano essere ministri della consolazione che viene da Dio, che sappiano prendersi cura dell’anima, delle domande che nella propria interiorità assillano. Che quando si è malati (o familiari di malati) ancora di più urgono.
Al grido degli oppressi – così troviamo scritto in Abacuc – Dio risponde. Dice che c’è un termine alla tragedia. Magari siamo chiamati ad un tempo di attesa. Ma poi Dio risponde! Come ministri della Consolazione siamo chiamati a sorreggere la speranza, che sta nel credere in un Dio della vita e dunque che anche per ciascuno c’è la pienezza della vita. La speranza terrena di essere guariti (e spesso ciò si realizza e in pieno) e comunque sempre curati, fino all’ultimo momento. Mai lasciati soli… La cura, la consolazione, la presenza anche umile e silenziosa sono le tracce, il presagio di una salvezza piena.
E comunque, con rispetto, siamo chiamati a sorreggere la fede e la speranza nella vita eterna, nel Paradiso. La speranza di una vittoria piena sul male e sulla malattia e sulla morte. La speranza di una comunione profonda che ci rigeneri da questo mondo impazzito per la sua violenza, per il dilagare dell’ingiustizia e della prepotenza.

Il versetto del salmo responsoriale recita: “Ascoltate oggi la voce del Signore”. È l’appello che voi cappellani siete chiamati a far risuonare di cuore in cuore: ritrovare le energie di restare in ascolto del Signore, di un Dio vivo che risponde e che ci è vicino. Di un Dio che consola. Di un Dio che ci ama anche nelle contraddizioni del mondo.
Non è un compito facile: restare accanto agli ammalti è un ministero impegnativo. A Dio chiediamo la grazia.

Nella seconda Lettura (2Tim 1,6ss) san Paolo ricorda a Timoteo di ravvivare il dono di Dio, la grazia dell’ordinazione. Dio ci ha dato non uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità e di prudenza. C’è da custodire mediante lo Spirito il dono di Dio che abbiamo ricevuto. Ma è un dono che deve fruttificare per il bene dei fratelli che ci sono affidati.
Nella lettera pastorale Ha cura di voi ho tracciato la prospettiva: come noi abbiamo sperimentato la cura dei genitori, come segno della cura di Dio per noi… così siamo chiamati a prenderci cura dei fratelli, specialmente di quelli più sofferenti. E la grazia del Signore è la nostra forza.

Anche qui, in Ospedale – come ovunque – la legge fondamentale per prenderci cura del cuore ferito, delle domande laceranti, delle inquietudini sconsolate, delle rabbie che incombono è la carità di Cristo.
Quando San Paolo ne parla nella Prima Lettera ai Corinzi (1Cor 13,4ss) dice che la carità è magnanima, benevola; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d'orgoglio, non manca di rispetto. Poi aggiunge (cito dalla traduzione in lingua corrente):

“Chi ama
è sempre comprensivo,
sempre fiducioso,
sempre paziente,
sempre aperto alla speranza” (v. 7).

Ecco il sentiero da percorre ogni giorno nel vostro essere accompagnatori spirituali. Caro don Manfredi, cari Cappellani tutti, anche qui siete al servizio dell’incontro personale di ciascuno con il Dio vero, il Dio della Misericordia, il Dio della vita. Con rispetto siete chiamati a far risuonare la Buona notizia del Vangelo, a far brillare la presenza di Dio che ha promesso: “Io sono con te”. Siete chiamati ad aiutare a tenere fisso lo sguardo sul Signore Gesù, il nostro Salvatore che tutto perdona, che sa risanare le lacerazioni delle famiglie, che sa ridare l’audacia del riprendere cammini di fede interrotti.
Accanto ai medici e a tutto il personale siete espressione della premura di Dio, che è per tutti. Anche per quando si è nel letto di un ospedale. Anche accanto a chi è incompreso nelle proprie fatiche (e a chi lavora in questi ambienti capita spesso).
La via per essere ministri di consolazione, accompagnatori spirituali… è chiara: la carità “tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Che vuol dire:

“Chi ama
è sempre comprensivo,
sempre fiducioso,
sempre paziente,
sempre aperto alla speranza” (v. 7).