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Caso Wärtsilä, un clima di inquietante incertezza

 

Riflessioni sul caso Wärtsilä


Sul sito della Wärtsilä Italia S.p.A trovo scritto: “Wärtsilä è un leader globale nelle tecnologie innovative e soluzioni per il ciclo di vita per i mercati marino ed energetico. Promuoviamo l'innovazione nella tecnologia e nei servizi sostenibili per aiutare i nostri clienti a migliorare continuamente le loro prestazioni ambientali ed economiche”. Non ho motivi per dubitare quanto dichiarato.
Appena arrivato a Trieste, nello scorso aprile, mi hanno informato della preoccupante situazione prospettata dalla dirigenza finlandese con la chiusura della sede di San Dorligo della Valle. Mons. Malnati mi ha tenuto in costante aggiornamento. E ora siamo arrivati a questo Natale in un clima di inquietante incertezza.
Come può essere che una multinazionale che si definisce leader globale nelle tecnologie innovative dismette un patrimonio di conoscenze, una sede storica, un licenziamento di massa sostanzialmente senza impegnarsi a cercare un futuro per i lavoratori e per questa sua sede industriale? Come può esserci un totale disinteresse pe runa città nella quale finora ha fatto profitto e ha tratto prestigio?
Leggendo la cronaca dei giornali, le promesse disattese, viene una domanda: Può un’impresa consolidata essere così mancante nei confronti dei suoi lavoratori, della città, della sua classe politica?
Non sono titolato a esprimere giudizi di politica industriale. Quello che posso fare è richiamare la lunga tradizione della dottrina sociale della Chiesa, e in essa trovo richiami importanti alla responsabilità sociale dell’impresa.
Quello che sta avvenendo chiede di intervenire con correzioni: “Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo di intendere l'impresa… Uno dei rischi maggiori è senz'altro che l'impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta delocalizzazione dell'attività produttiva può attenuare nell'imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l'ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità” (Benedetto XVI, Caritas in veritate n. 40).
Occorre istituire una responsabilità nei confronti dei tanti “portatori di interesse” che rientrano nell’orbita delle imprese. Questo è quello che denunciamo: la mancanza di assunzione di responsabilità vero i lavoratori, verso l’indotto, verso la città.
Papa Benedetto XVI ha affermato: “è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera” (Ivi). Si tratta di riflessioni generali, di quasi 15 anni fa.
Io non ho mai incontrato la dirigenza della Wärtsilä che ha scelto la chiusura della sede di Trieste e non mi permetto di esprimere giudizi. Forse nella logica del promuovere il futuro dell’azienda potrebbe avere il suo senso il chiudere una sede industriale.
Ma quello che chiediamo è l’adoperarsi per dare un futuro lavorativo dignitoso per tutti i lavoratori, compresi quelli dell’indotto.
Quello che ci aspettiamo dai buoni manager è la capacità di promuovere il bene delle città e non solo di sfruttarle per poi andarsene.
Quello che ci aspettiamo è la capacità imprenditoriale di trovare soluzioni che siano vantaggiose per tutti i “portatori di interesse” e non solo per gli azionisti o per chi rimane in altre sedi.
Mi faccio interprete delle attese dei lavoratori, di tante famiglie e della città, che ha una sua anima di solidarietà e di comunione, nel chiedere che le autorità politiche e imprenditoriali non si rassegnino a veder chiudere, dismettere, licenziare, impoverire Trieste.
Auguro a tutti l’estro e il coraggio di investire per il bene comune, che è anche il bene di ciascuno.

✠ Enrico Trevisi
Vescovo di Trieste