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Con Gesù a scuola di pace | La raccolta delle catechesi del Vescovo


Diocesi di Trieste

✠ Enrico Trevisi,
Vescovo di Trieste


Spunti per la catechesi di Avvento

Con Gesù
a scuola di pace


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“Da diversi mesi il Sudan è in preda a una guerra civile che non accenna a spegnersi e che sta provocando numerose vittime, milioni di sfollati interni e rifugiati nei Paesi limitrofi e una gravissima situazione umanitaria. Sono vicino alle sofferenze di quelle care popolazioni del Sudan, e rivolgo un accorato appello ai Responsabili locali, affinché favoriscano l’accesso degli aiuti umanitari e, con il contributo della Comunità internazionale, lavorino alla ricerca di soluzioni pacifiche. Non dimentichiamoci di questi nostri fratelli che sono nella prova!
E il pensiero ogni giorno va alla gravissima situazione in Israele e in Palestina. Sono vicino a tutti coloro che soffrono, palestinesi e israeliani. Li abbraccio in questo momento buio. E prego tanto per loro. Le armi si fermino, non porteranno mai la pace, e il conflitto non si allarghi! Basta! Basta, fratelli, basta! A Gaza, si soccorrano subito i feriti, si proteggano i civili, si facciano arrivare molti più aiuti umanitari a quella popolazione stremata. Si liberino gli ostaggi, tra i quali ci sono tanti anziani e bambini. Ogni essere umano, che sia cristiano, ebreo, musulmano, di qualsiasi popolo e religione, ogni essere umano è sacro, è prezioso agli occhi di Dio e ha diritto a vivere in pace. Non perdiamo la speranza: preghiamo e lavoriamo senza stancarci perché il senso di umanità prevalga sulla durezza dei cuori” (Francesco, Angelus 12-11-2023).

“Continuiamo a pregare per la martoriata Ucraina e per le popolazioni di Palestina e Israele. La pace è possibile. Ci vuole buona volontà. La pace è possibile. Non rassegniamoci alla guerra! E non dimentichiamo che la guerra sempre, sempre, sempre è una sconfitta. Soltanto guadagnano i fabbricanti di armi” (Francesco, Angelus 19-11-2023).

Talvolta ci sono parole che in alcune stagioni vengono dileggiate e storpiate. Capro espiatorio su cui riversare le colpe. La parola “pace” e ancor più “pacifista” risultano facilmente il bersaglio di chi si irrigidisce sulle proprie posizioni (giuste o sbagliate che siano) per giustificare guerre, battaglie, violenze. Anche la parola “scuola” e ancor più “scolastico” diventano sinonimo di noia, di pesantezza, di doveri sopportati in organizzazioni insoddisfacenti. Non parliamo poi delle ONG che per certa stampa e opinionisti sembrano l’incarnazione del demonio.

Non fermiamoci in modo aggressivo a giocare con le parole. Assumiamo il rischio di un piccolo itinerario, certamente lacunoso e parziale, in cui cerchiamo di lasciarci ispirare dalla Parola di Dio rileggendola in questo contesto di guerre e di violenze inaudite. E così in questa prospettiva percorriamo l’Avvento come una scuola di pace che ci sollecita pensieri e motivazioni e scelte che ci conducono nel cuore di Cristo, nel mistero della sua incarnazione e della sua passione, della sua vita itinerante e della sua Risurrezione.

Il 5 novembre 2023 sul Molo Audace ci siamo trovati in tanti per un gesto significativo di unità: uomini e donne di diverse appartenenze religiose (specialmente di coloro che si riconoscono nel Dio di Abramo: ebrei, cristiani e musulmani) ma accomunati dal dolore per le guerre e in particolare per quanto sta avvenendo in Israele – Palestina. La Terra Santa è insanguinata. Tante stragi di innocenti.

L’incarnazione del Figlio di Dio ci ha rivelato che Dio vuole rendere santa tutta la terra, ma che noi la macchiamo ancora di inaudita violenza, di guerre terrificanti, di inutili stragi. Chiedo in questo tempo di riflettere e di aiutare le nostre comunità a soffermarsi (evitando che tutto si riduca ad un bagliore emotivo che subito svanisce) sul tema della pace e del diventare artigiani costruttori della Pace che il Risorto ci ha donato. E poi di continuare a pregare per la pace e per la conversione dei cuori induriti dalla prepotenza e dalla vendetta. Preghiamo senza stancarci.

Il Dio della pace

ovvero

la pace tra Dio e gli uomini



Se apro la Scrittura facilmente mi imbatto in pagine in cui Dio vuole la guerra, assume le vesti di guerriero, col suo braccio potente stermina eserciti e popoli, e il suo angelo arriva a far morire i primogeniti. Nel libro dell’Esodo o in quello di Giosuè, nei testi dei profeti o in quelli che narrano la storia di Israele. Si susseguono guerre e prepotenze in cui il Golia di turno vuole schiacciare il Davide che invece è sorretto dalla fede in Dio.

E Dio stesso interviene, ordina di fare guerre, di distruggere, di seminare morte. La stessa cosa la troviamo anche nei testi di altre religioni. E così facilmente gruppi ideologizzati ed estremisti strumentalizzano la Scrittura sacra per legittimare le loro battaglie, le loro guerre sante. E una lettura ingenua – che però vanta una lunga tradizione, ma quella con la minuscola, quella non fondata su un’attenta comprensione della bibbia – porta ad avallare estremismi e terroristi, guerre sante e infinite violenze. E in nome di Dio, accecati dal rancore ma autorizzati da una falsa religiosità, si giunge a commettere nuove stragi di innocenti, che si moltiplicano di continuo. Anche se gli Erode di volta in volta hanno divise militari di colore differente, di bandiere differenti.

Al centro della fede di Israele ci sta la Pasqua che è liberazione dall’Egitto, che si esprime nella forma dell’uccisione dei primogeniti d’Egitto e dell’esercito nel Mar Rosso.
"Voglio cantare in onore del Signore: perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere. 2 Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato.
È il mio Dio e lo voglio lodare, è il Dio di mio padre e lo voglio esaltare! 3 Il Signore è prode in guerra, si chiama Signore. 4 I carri del faraone e il suo esercito ha gettato nel mare e i suoi combattenti scelti furono sommersi nel Mare Rosso (Esodo 15,1-4).

Dio vuole la salvezza del più piccolo tra tutti i popoli, del suo Israele. E lo scrittore biblico (la Parola di Dio è scritta in parole umane e dentro la cultura del tempo) sa dirlo con il linguaggio umano di quell’epoca e dunque sa dire la salvezza di Israele attraverso le uccisioni, le guerre vinte e la distruzione del nemico. La Divina Rivelazione ci dice che Dio salva il suo popolo, e questa è la verità che resta, non il lessico semita della guerra e dell’uccisione del nemico.

Tuttavia la cosa che più stupisce è che agli occhi dell’uomo, agli occhi del popolo eletto si interpreta che Dio stesso è un avversario, un nemico. Si coglie la vita come una battaglia, nella quale Dio non sta sempre dalla nostra parte. Arriva a mandarci eserciti stranieri, a punirci attraverso di essi, a infierire per correggere la nostra disobbedienza. Questo il problema di fondo: Dio è mio amico o mio nemico? Non si mette in discussione la sua esistenza, ma la sua bontà!

Non voglio irritare nessuno: so bene che ci sono tante pagine che esaltano la misericordia di Dio e ne cantano la meraviglia: eterna è la sua misericordia. Ma rimane che possiamo restare scandalizzati per le atrocità che pure la Bibbia ci descrive come (apparente) ordine di Dio. Si interpreta: è Dio che vuole queste uccisioni, questi stermini, queste guerre!!!

Diventa allora prioritario l’interrogativo: “ho capito quale è il progetto di Dio sull’umanità?”. In un’altra formulazione: “ho compreso che Dio mi è amico e non è in guerra contro di me ma sta dalla mia parte?”. “Ho compreso che l’essere cristiani, l’essere nella Chiesa è un onore, una vocazione all’amore e non un entrare in guerra contro qualcuno?”.

Certo che il cristiano è in lotta: è la lotta della conversione continua. Vive nel combattimento spirituale per vincere il peccato che ancora è in lui. E fortificato dalla grazia si ritrova a camminare sapendo che nel mondo cresce il buon grano ma anche la zizzania (Mt 13,25), e sarà così fino al termine della storia umana.

A mio parere bene sintetizza il Concilio, dandoci la chiave di lettura di come ci collochiamo dentro la questione del nostro rapporto con Dio, come Gesù ci ha rivelato:
“La Chiesa, nel dare aiuto al mondo come nel ricevere molto da esso, ha di mira un solo fine: che venga il regno di Dio e si realizzi la salvezza dell'intera umanità. Tutto ciò che di bene il popolo di Dio può offrire all'umana famiglia, nel tempo del suo pellegrinaggio terreno, scaturisce dal fatto che la Chiesa è «l'universale sacramento della salvezza» (LG 48) che svela e insieme realizza il mistero dell'amore di Dio verso l'uomo. Infatti il Verbo di Dio, per mezzo del quale tutto è stato creato, si è fatto egli stesso carne, per operare, lui, l'uomo perfetto, la salvezza di tutti e la ricapitolazione universale” (Gaudium et spes 45).

Dunque con San Paolo (Rom 5,1) possiamo dire: “siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”. Ci siamo rappacificati con Dio. Non siamo più in guerra con lui!!! La Divina Rivelazione, in Gesù, ha tralasciato il riferimento alla guerra e alla violenza. Gesù è la riconciliazione dell’uomo con Dio: ora sappiamo definitivamente che Dio è dalla nostra parte. Ci ha dato tutto. Ci ha dato suo Figlio, l’Amato.

Non c’è più bisogno di sacrificare nessuno. Non c’è più bisogno di fare guerre (basta combattere l’Egitto, l’Assiria, Babilonia e Roma) e di distruggere i nemici e di cancellare il loro nome. Gesù si è sacrificato per noi: è l’Innocente ucciso, l’Amato dal Padre ma respinto dagli uomini.

Meravigliati per aver scoperto la volontà di Dio, la salvezza per tutti i popoli e per tutti gli uomini, contempliamo Dio che chiede il permesso a Maria di incarnarsi; Dio che si fa piccolo, si fa bambino; Dio che resta umile a Nazareth, uomo tra gli uomini: Dio tra gli uomini nell’ordinario povero e normale della vita (famiglia, lavoro, villaggio…). Ecco la pace tra Dio e gli uomini, e la pace tra gli uomini che si scoprono amati, che si ritrovano Dio che in Gesù si è fatto fratello, amico, maestro, Salvatore. Questo è il disegno di Dio per la terra e per l’umanità.

Occorre innanzitutto IMMAGINARE la pace: solo dopo possiamo cercare le strategie. La Scrittura ci racconta di tante guerre, ma ci fornisce anche la possibilità di immaginare la pace. Ed è da questa immaginazione che dobbiamo partire per aprirci a un progetto che non è irenismo a buon mercato, ma impegno, sacrificio, perdono… cioè un fare che ha un prezzo alto. Quello che il Crocifisso ci ha insegnato.

I popoli in guerra

ovvero

Percorsi di pace tra gli uomini



La “teoria della guerra giusta” poneva condizioni molto rigorose. Chi la evoca oggi non la conosce. Era nata un po’ alla volta lungo i secoli e sempre per limitare la guerra, restringerla e costringerla a ridimensionarsi. Per fare la guerra (lo jus ad bellum) si chiedeva: 1) una causa giusta; 2) un’autorità competente; 3) una retta intenzione; 4) rimedio estremo; 5) proporzionalità; 6) probabilità di successo. E una volta scoppiata la guerra (lo jus in bello) si prescriveva 1) la discriminazione tra obiettivi civili e obiettivi militari; 2) la proporzionalità di ogni azione militare rispetto agli esiti ragionevolmente sperati. Tutte condizioni che nelle attuali guerre sono disattese. Per esempio nelle guerre sono molto più i civili a morire che non i militari (pensiamo a quello che sta succedendo a Gaza); la probabilità di successo è assai problematica se pensiamo che anche Russia e Stati Uniti hanno perso la guerra in Afghanistan; la causa giusta è sempre più difficile da definire: basti pensare che nella prima guerra mondiale i cattolici italiani dichiaravano giusta la guerra contro l’Austria e i cattolici austriaci dichiaravano giusta la guerra contro l’Italia. Esattamente come i vescovi ucraini dichiarano giusta la guerra contro la Russia e i vescovi russi dichiarano giusta la guerra contro l’Ucraina. E la retta intenzione quando si fa una guerra non riusciamo a rintracciarla, visto che poi sempre si aggiunge rancore, prepotenza, vendetta e rapina delle materie prime ai Paesi vinti e assoggettai. E questo vale in Africa, in Iraq e ovunque…

Siamo in questa terza guerra mondiale a pezzi, come ha detto papa Francesco proprio nella nostra terra, a Redipuglia il 13 settembre 2014 nella Messa al Sacrario Militare: “una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni…”.

Certo azioni di difesa militare sono previste da Gaudium et spes e Giovanni Paolo II e Benedetto XVI mutuando categorie dal linguaggio del diritto internazionale e della diplomazia hanno parlato con clausole ben precise di “diritto all’ingerenza umanitaria” o di “dovere di proteggere”. Ma di fronte alle stragi degli innocenti perpetrate da tanti eserciti, con divise e bandiere differenti, rimaniamo scossi. Ci sono azioni militari che vanno ben al di là di un dovere di proteggere quando si seminano morte e distruzioni che travalicano ogni discriminazione tra civili e militari. Siamo sgomenti, inorriditi. Non ci saremmo immaginati ancora tanta crudeltà.

Ormai sempre si teme l’escalation, cioè l’intensificazione e l’allargamento del conflitto. E talvolta con disinvoltura si parla di armi nucleari e del loro utilizzo. E poi tutti diffidiamo di numerosi Capi di Stato o di Governo perché li riteniamo accecati dall’orgoglio e dal narcisismo, senza alcuno scrupolo morale.

In questo contesto occorre almeno protestare e dire la nostra indignazione per come vengono gestite le crisi tra i popoli. Queste potrebbero essere le tesi su cui spingere la riflessione e provocare anche la discussione culturale e politica:
  • Lavorare per mettere al bando le armi di distruzione di massa (atomiche, batteriologiche e chimiche). Purtroppo solo il Papa ha il coraggio di rilanciare la questione. Troppi stanno in silenzio e sembrano rassegnati. Disarmiamo il mondo dalle armi nucleari, batteriologiche e chimiche!
  • Chiedere nuove restrizioni al commercio delle armi. Non possiamo indignarci per le guerre e poi spingere le nostre navi militari a fare pubblicità alla vendita delle armi (prodotte da aziende pubbliche e private) anche a Paesi governati da autocrati e dittatori. E sappiamo che anche il nostro Paese su questo si è tristemente compromesso.
  • Spingere sempre più a rilanciare la diplomazia e a negare la legittimità del fare la guerra. Di fronte alle tensioni crescenti tra gli Stati (pensiamo anche alle continue frizioni tra i Paesi dei Balcani) occorre ci siano Autorità indipendenti capaci di mediare e cercare soluzioni alternative alla guerra.
  • In particolare occorre chiedere ancora la Riforma dell’ONU e delle varie Agenzie Internazionali, perché possano essere arbitri nelle dispute tra le nazioni. Non ci si illude che diventino arbitri perfetti ma che sappiano allontanare e continuamente rimandare la tentazione del “farsi giustizia da sé”.
  • Investire sulla resistenza non-violenta e sulla mediazione per tutelare le minoranze specie nelle zone frontaliere. E Trieste comprende bene la questione, sia per la minoranza di lingua slovena presente in Italia che per quella di lingua italiana presente in Slovenia e in Croazia.
  • Quando a combattere sono i popoli (spesso si tratta di guerre civili) la ragione spesso non è tutta da una parte (perché per molto tempo non si è riusciti a parlarsi, a mediare, ad andare incontro alle sofferenze dell’altra parte) mentre le vittime spesso sono totalmente innocenti: come i bambini sgozzati da Hamas, come i bambini bombardati a Gaza o in Ucraina o in Siria. La prevenzione della guerra, con una grande capacità di mediazione nelle tensioni, soprattutto riguardo alle minoranze transfrontaliere, è una urgente via da rilanciare.
  • Occorre investire sullo sviluppo: troppi popoli sono sfruttati, con lavoratori sottopagati, condizioni di lavoro indegne e pericolosissime e senza tutela alcuna. Terre rapinate con meccanismi finanziari ed economici da rivedere. Paolo VI già nel 1967 nella Populorum Progressio aveva scritto che “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Ogni volta che collaboriamo allo sviluppo integrale di qualche pezzetto del mondo, lavoriamo per la pace.

Ritengo sia immorale l’arricchirsi con la guerra e il formarsi di patrimoni ingenti attraverso le guerre e il commercio delle armi. Mentre la povera gente muore, mentre si bombardano gli ospedali, le chiese, le scuole, le case c’è gente che arricchisce e specula producendo e vendendo armi. In ciò non c’è nulla di cristiano. E penso sia razionale mettere alte tassazioni sui guadagni delle industrie di armi perché poi la ricostruzione e i danni collaterali alla guerra sono caricati sulle spalle di tutti (aumento dei prezzi, inflazione, ricostruzione…). E il dolore e la morte pesano per sempre!

Quando avviene l’incarnazione del Figlio di Dio, in quella notte santa gli angeli cantano ai pastori la Gloria di Dio e la pace agli uomini amati dal Signore. Credere e vivere la fede nel Dio che si fa uomo significa immettersi in questa circolarità di gloria del Signore che ci avvolge, di gioia grande annunciata e di pace tra gli uomini amati dal Signore (cfr. Lc 2,8-14). Non si tratta solo di spegnere le armi ma di contribuire al progetto di salvezza per questi uomini amati dal Signore. Dunque festeggiare il Natale, l’incarnazione del Figlio di Dio, significa annunciare il fondamento della Pace che pure rimane un compito a noi affidato. E infatti Isaia aveva parlato del Messia come del Principe della Pace (Is 9,6) ma che però va accolto e ascoltato.

Quanto più accoglieremo Gesù e la novità della sua Grazia, quanto più saremo aperti al costruire la pace, a prenderla da Dio e impiantarla nelle nostre relazioni.

Per fare la pace, dopo averla immaginata, occorre inventarla. INVENTARE la pace significa che non c’è un copione da recitare ma una vita in cui spendersi e rischiare, pazientemente, accettando anche i tempi lunghi della storia e dei popoli ma svolgendo il proprio ruolo da protagonisti… di pace. Per inventare la pace occorre certamente correggere le economie di guerre, tassare gli extra-profitti dell’industria bellica, rilanciare il diritto internazionale e le sue istituzioni.

Le comunità divise

ovvero

comunità in cui si apprendono stili di pace



La comunione non è mai stata facile, neanche nella Chiesa. Anche gli Atti degli Apostoli ci testimoniano tensioni che portano a inventare, guidati dallo Spirito, modalità per sciogliere e rielaborare le contrapposizioni. La scelta di istituire i diaconi, e dunque di intervenire sui ministeri costitutivi della Chiesa, rimanda a questo clima di insofferenza, di crisi. Si tratta di gruppi etnici che si sentono discriminati, di dialoghi interrotti da riallacciare, di una carità e di un annuncio che vanno vissuti in modo corale-comunitario-comunionale perché da soli non si riesce. Gli Apostoli devono farsi aiutare, altrimenti la comunità si divide; devono suscitare responsabilità e investire di Spirito Santo persone che con loro condividono la missione di edificare la chiesa, di raccogliere il mandato di Cristo.

Qui possiamo leggere un tratto di Chiesa sinodale che rimane normativo anche per noi: oggi dobbiamo reinventare modalità di corresponsabilità per vincere le incombenti divisioni che attraversano gli Stati, i popoli, le chiese, le famiglie… Da ogni parte si sente l’esigenza che ci siano “mediatori”, artigiani di pace, facilitatori di dialogo e di reciproco ascolto. A dire il vero il demone della divisione si è sempre fatto sentire nella storia dell’umanità e della Chiesa: basti guardare a come tutte le religioni al loro interno sono frastagliate e spesso divise in gruppi che non si parlano; e così anche la storia che abbiamo imparato a scuola spesso è stata una sequenza di guerre, di contrapposizioni, di divisioni, di prepotenze.

Ho sentito questa frase: “Perché la scuola diventi una famiglia occorre che le famiglie siano la prima scuola”. Dice di un’alleanza educativa in cui ciascuno deve contaminarsi e non pensarsi in modo solitario e autoreferenziale. Gli stili dell’altro mi possono aiutare a migliorare il mio mandato, la mia missione. Qui vorrei descrivere degli stili di pace che si possono apprendere per contaminazione nelle comunità. Penso alle parrocchie e alle diverse associazioni e movimenti, ma in analogia a diverse altre realtà comunitarie.

  • - Imparare ad ascoltarsi. Io ho le mie ragioni, ma anche l’altro ha le sue e merita tutto il tempo di essere ascoltato, con stima e rispetto. Nelle modalità che lo mettono a suo agio. Senza che si senta subito giudicato, condannato. Anche il silenzio comunica: può essere segno di attenzione o di assenza, di rispetto e di approfondimento o di sfiducia nelle capacità dell’altro di comprendere. A noi scegliere di darvi un senso di intenso “ascolto”. “Ascolta Israele!”: la consapevolezza che Dio mi parla e che dunque devo anzitutto tacere è la premessa di ogni altro movimento. Ma a questo occorre allenarci.
  • - Imparare a parlarsi. La comunicazione non-ostile rimane un processo paziente e continuo. “Si è ciò che si comunica” dice il secondo principio del Manifesto della comunicazione non ostile: “Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano”. Se guardo a Gesù è proprio così: le sue parole raccontano chi lui è.
  • - Vigilare sul proprio cuore (per rielaborare rancori e sentimenti) e sulle parole (per evitare comunicazioni ostili). Gesù insegna che è dal cuore che esce ogni sorta di male (Mt 15,19): prima di arrivare alla violenza è il cuore ad averla meditata. E le parole spesso creano complicità o mandano altri strumentalizzandoli, reclutandoli nella vendetta.
  • - Il dolore dell’altro è unico. Non posso sminuirlo. Devo comprenderlo e semmai aiutarlo a portarlo, cioè a farmene carico senza indulgere ad assistenzialismi deresponsabilizzanti, ma anche comprendendo la singolarità di ogni dolore, di ogni ingiustizia, di ogni ferita e cicatrice. In quel bisognoso (affamato, assetato, profugo, malato, carcerato…) c’è una singolare presenza del Crocifisso a cui piedi fermarsi (Mt 25).
  • - La verità e la giustizia necessitano di amore e di perdono: altrimenti si riducono a sentenze di condanna. La verità nella carità, e la carità nella verità sono l’unico modo per evitare estremismi che poi deludono. L’irrigidimento su una verità-dottrina che non guarda negli occhi la persona con la sua fragilità come anche un buonismo che abbandona la persona alla sua debolezza e al suo precipitare nel male, portano solo a incrementare vittime arrabbiate. Papa Francesco ci domanda: ma perché siamo tanto restii a vivere la misericordia di Dio?
  • - La comunione, la pace necessitano processi lunghi e mai conclusi. Occorre la pazienza del contadino e la fantasia dell’artista. I processi educativi necessitano che ci si comprometta sempre in modo vero e sempre nuovo. Il tutto è subito non è possibile per far maturare un figlio: ci sono tappe di crescita. E così anche la pace necessita tappe in cui si accetta di convivere con pazienza con ciò che solo per il momento accettiamo e offriamo, ma in vista di ulteriori miglioramenti. Il Regno di Dio è presente, ma in germe. La pienezza ci sarà data in Paradiso.
  • - Promuovere l’altro perché si senta stimato e corresponsabile (anche se magari in una piccola cosa, adeguata alla sua possibilità) è la via perché ciascuno si senta appartenente e non utente della comunità. Anche chi sbaglia ha bisogno di sentirsi ancora stimato e amato: Dio fa così. In forza del battesimo ognuno è conformato a Cristo re-sacerdote e profeta! Restano carismi differenti, ma a partire dalla medesima dignità filiale che non viene meno neanche quando siamo umiliati dal nostro peccato.

Il Battista è il precursore di Gesù, è il più grande dei profeti, ma resta il precursore del Messia. L’apostolo – e questo vale sempre, anche per noi – deve ricordarsi di rimanere anzitutto un discepolo di Cristo, l’unico vero Maestro. Se vogliamo che le nostre comunità sappiano educare a stili di pace occorre che si mantengano con lo sguardo fisso sul Signore che da ricco che era si è fatto povero per venirci incontro in questa nostra umanità. E poi in ascolto di Lui. Questo il primo stile: non abbiamo una ricetta da imporre, ma un incontro da vivere, una relazione da costruire come un generare qualcosa di nuovo e inedito in cui misteriosamente Dio vuole essere presente anche nell’apparente piccolezza. Come quella del bambino di Betlemme, del Crocifisso di Gerusalemme.

Servono comunità che sanno GENERARE la pace: essa dopo essere stata immaginata, inventata, va generata a partire da piccole comunità che la fanno essere, le danno vita: non sarà perfetta, ma essa comincia ad esserci, a mostrare le sue fattezze, a suscitare interesse.

Uomini e donne di pace

ovvero

artigiani di pace nel quotidiano



Maria, Regina della pace ci aiuti. Certo teniamo fisso lo sguardo su Gesù (Eb 12,2): lui è l’autentico Maestro e facciamo in modo che nessuno oscuri Lui e il suo insegnamento. Eppure abbiamo bisogno di qualche mediazione che ci ispiri nel tradurre il Vangelo oggi nella complessità e nei temi inediti di questo momento storico.

Quando c’era Gesù non c’erano le bombe atomiche e neppure le armi chimiche e batteriologiche anche se le sopraffazioni e violenze dei vari imperatori-re-dittatori e dei loro eserciti era ben nota. Non si poneva la questione ambientale e climatica perché c’era maggiore armonia tra l’uomo e la natura. E se la problematica dei profughi-deportati-schiavizzati era ricorrente oggi ha forme nuove e di esse ci sappiamo corresponsabili (la questione dei migranti, dei profughi, della tratta delle persone…).

Se guardiamo a Maria e Giuseppe impariamo la non violenza. Hanno preferito fuggire in Egitto perché perseguitati da Erode (come tanta gente dai nuovi Erode) ma non li vediamo aggressivi e lamentosi. Sono intraprendenti nel “difendere” Gesù bambino dall’orrore della violenza assassina, ma non li troviamo arrabbiati verso Dio perché permette a Erode di tiranneggiare Israele e le povere persone.

Se guardiamo a Maria e Giuseppe impariamo l’accoglienza. Hanno accolto il mistero di un Dio presente nello scandalo di una gravidanza misteriosa; hanno accolto i pastori e i magi dentro la povertà della grotta di Betlemme. Si accoglie dove si è, come si è, nella povertà di quello che si è. Senza fantasticare di trovarsi in condizioni migliori.

Se guardiamo a Maria e Giuseppe impariamo la pazienza. Non si può pretendere di estirpare subito tutto il male ma occorre lasciare che ci colpisca senza però divenirne complici. Oggi, anche perché allettati dalla tecnica che ha reso tutto possibile in breve tempo, non siamo più allenati alla pazienza, ad aspettare, a procedere con i tempi di chi ci rallenta. Siamo impetuosi, ci viene da lasciare indietro chi ci frena e così si creano fratture, contrapposizioni, divisioni, inimicizie.

Se guardiamo a Maria e Giuseppe impariamo la fantasia e l’inventiva. Ispirati da Dio tracciano vie nuove, inedite, scandalose rispetto a quanto fissato nella Legge. Non si può procedere solo applicando norme. Se si fossero osservati tutti i decreti religiosi… Gesù non sarebbe nato, e Maria sarebbe stata lapidata. C’è un bene maggiore che ci fa andare oltre la giustizia che le leggi cercano di comunicare e proteggere. C’è la giustizia di Dio a cui guardare e che provoca all’inaudito di amore, all’eccesso del sacrificio, al rischio dell’incomprensione di chi pure si pensa religioso.

Se guardiamo a Maria e Giuseppe impariamo a restare in ascolto di Dio. Non si può pretendere che tutto sia chiarito in un istante. La strada da percorrere per costruire la pace è lunga e come Maria e Giuseppe vediamo solo un tratto di strada per volta. Poi ci sono curve, tornanti pericolosi, valichi impegnativi, dirupi spaventosi. Anche tratti spopolati, in cui sperimentiamo la solitudine delle scelte, il rischio del perdere la vita perché ci si espone all’altro, alla sua fragilità, alla sua prepotenza facendosi appello e richiesta che si ravvivi in lui umanità e rispetto. Dio ci accompagna nell’inquietudine di fronte al male per scegliere se e come resistere, se e come fuggire, se e come sacrificarci.

A papa Francesco piace parlare di artigiani di pace, che costruiscono giorno per giorno la pace con le scelte quotidiane che portano a superare la ricerca degli interessi individuali o nazionalistici per abbracciare la scelta del noi, del bene comune. Occorre riabilitare prassi in cui insieme lavoriamo, insieme preghiamo, insieme affrontiamo il dolore e l’ingiustizia, insieme tessiamo trame di fraternità e di giustizia, di solidarietà e di pace. Insieme non vuol dire massa, folla, caos: piuttosto è l’antidoto all’individualismo per cui l’io è l’idolo; è antidoto al narcisismo per il quale gli altri sono rivali da sacrificare. Se camminiamo insieme significa che identifico l’altro come una risorsa, un arricchimento per i miei pensieri, per la mia umanità, per il mio riconoscere e amare Dio.

Si obietterà che l’altro spesso è una minaccia, è un pericolo, è un terrorista. Ed è vero. Ci serve al polizia e anche la magistratura. Ma essi da soli non rendono il mondo felice. C’è bisogno di recuperare la fiducia tra i popoli e le nazioni. Se tra russi e ucraini si fosse riusciti a creare dialogo e rispetto, se la minoranza linguistica fosse stata dignitosamente accolta e rispettata e tutelata da una parte come dall’altra, forse ci sarebbero state evoluzioni diverse. Se Israele e Palestina riuscissero a comprendere il dolore dell’altro, l’orrore del vedere morire innocenti i propri bambini, colpevoli solo di essere nati dall’altra parte del muro che divide chi è già corroso dall’odio, forse si cercherebbero vie alternative al fanatismo violento.

Essere artigiani di pace significa che ci proviamo di continuo, come fosse un’arte che richiede doti ma anche allenamento, originalità ma anche stile, metodo. Improvvisazione ma anche tecnica.

I santi sono artigiani di pace. Non possiamo pensare che il nostro apporto per la pace sia un mediocre mediare tra litiganti e violenti. Solo se con passione saremo sulle orme di Cristo, fissi con lo sguardo su di lui, tenaci nel resistere alla diffidenza che predispone all’aggressività. Solo se manterremo il cuore aperto allo Spirito di Dio sapremo medicare le ferite e riallacciare circuiti di fiducia, di compassione, di comprensione del dolore dell’altro, del suo patire ingiustizie per colpe che non ha lui commesso. Fino a quando faremo patire ai figli le colpe dei padri? I santi spezzano la catena del male preferendo essere vittime che carnefici, creativi nel perdono piuttosto che appiattiti nella vendetta. Di santi la pace ha bisogno. Di santi nelle famiglie, di santi nei luoghi di lavoro, di santi nelle comunità, di santi imprenditori, di santi politici, di santi preti.

E in effetti la pace è dono del Risorto e viene sparsa insieme allo Spirito Santo. Così ci è raccontato nel Vangelo (Gv 20,19ss). Così troviamo scritto nella vita di tanti uomini e donne.

La pace è stata immaginata, inventata, generata, ora va coltivata. COLTIVARE la pace è l’impegno di tutti e di ciascuno. Non facciamo deleghe.