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Coltivare la riconciliazione: percorsi spirituali e culturali

 
 

card. Gualtiero Bassetti


Coltivare la riconciliazione: percorsi spirituali e culturali


<“Cattedra di San Giusto” – Trieste 27 marzo 2019




Carissimi fratelli e sorelle, sono molto lieto di essere tra voi, questa sera, su invito di S. E. monsignor Giampaolo Crepaldi, per intervenire alla Cattedra di San Giusto, divenuta ormai, per la Diocesi di Trieste, un appuntamento tradizionale. Esso si fonde alla natura stessa del ministero del Vescovo come servizio alla fede dei fratelli. Ecco perché l’edificio-chiesa dove avvengono i principali momenti della vita liturgica, è detto “cattedrale”: in quel luogo il successore degli Apostoli ha la sua cattedra e da lì esercita il servizio alla crescita della fede.
Sono lieto di offrire, in un quadro di comunione, il mio contributo come credente, sacerdote e vescovo, in un cammino di fede, che ci vede tutti coinvolti, specie nel tempo liturgico della quaresima.
Caratteristico di questo tempo è, tra l’altro, il ripensare il dono della salvezza in chiave di perdono dei peccati, di riconciliazione e di misericordia. Un tema – quello della riconciliazione – ricorrente e mai scontato: è bene non farci l’abitudine, non sottovalutarlo, quasi che fossimo già “oltre” questa meta, quasi che non avessimo bisogno di ripensare la realtà della riconciliazione e di riviverla. Ci doni il Signore, carissimi fratelli e sorelle, di compiere nel cammino verso la Pasqua significativi passi di conversione. E per far ciò vogliamo riscoprirne il valore spirituale e culturale sia in rapporto alla società nel suo insieme, sia a livello di Chiesa, sia personalmente.

Per una società riconciliata
Vorrei in primo luogo rileggere il dono della riconciliazione in riferimento alla società, alla comunità umana, al consesso civile in cui viviamo.
Pensiamo alle comunità evangelizzate da San Paolo: solo a volte l’Apostolo poté lodarle per il loro spirito di comunione; di frequente egli fu costretto ad ammonirle affinché evitassero divisioni, si donassero in sacrificio spirituale e perfetto, ricambiassero il male con il bene.[1] Insegnamenti di secoli eppure sempre attuali! La società odierna somiglia talvolta ad un campo di battaglia, dove, anche oggi, le diverse concezioni della vita e le identità particolari «si affrontano, lottano e cercano una composizione soddisfacente, o almeno sopportabile, una convivenza che si spera sia una pace duratura, ma che solitamente si dimostra solo un armistizio, una tregua per ripristinare le difese danneggiate e schierare nuovamente le truppe».[2] È certo che un diffuso sentire di questo tipo genera tensione, stress, insicurezza… E quando in un gruppo sociale cresce un malcontento al quale fatichiamo a dar nome e del quale non abbiamo la pazienza di cercare le cause profonde, è facile arrivare al conflitto.
Voi abitate una città che ha una collocazione geografica particolare: «Potremmo ben dire che Trieste è il suo porto», come è stato scritto in uno studio recente. [3] Per il suo passare da una cultura che faceva i conti con autentiche radici romane – si parla infatti di Venezia Giulia – a una dimensione di respiro mitteleuropeo. Non spettano a me valutazioni di ordine politico in senso stretto, ma posso chiedermi con voi: che cosa sarebbe di Trieste se non fosse stata e non fosse ancora oggi una città-porto e un luogo di scambio? E lo stesso potremmo domandarci a proposito di altre grandi località italiane che per loro natura sono aperte sul Mediterraneo: Genova, Livorno, Civitavecchia, Cagliari, Napoli, Palermo, Bari, Ancona e la stessa Venezia, per dire solo di alcune. Gli esempi si potrebbero moltiplicare ma questi pochi cenni bastino a dire quanto abbiamo bisogno di pace e di riconciliazione.
Un bisogno di pace che può ripartire proprio dal Mediterraneo. Da quel mare che Giorgio La Pira chiamava “il grande lago di Tiberiade” e che metteva in comune i popoli della “triplice famiglia di Abramo”. Oggi abbiamo la possibilità di iniziare a mettere in pratica quella visione profetica lapiriana che sin dalla fine degli anni ’50 aveva ispirato i “dialoghi mediterranei” e aveva anticipato lo spirito ecumenico che avrebbe soffiato, poi, con grande forza, nel Concilio Vaticano II. Tra meno di un anno, nel febbraio 2020, a Bari, in una città marinara di grande importanza come Trieste, si raduneranno in un incontro di riflessione e spiritualità tutti i vescovi cattolici dei paesi rivieraschi del bacino mediterraneo. Un incontro basato sull’ascolto e sul discernimento comunitario. E soprattutto: un incontro che, valorizzando la sinodalità, si prefigge di compiere un piccolo passo verso la promozione di una cultura del dialogo e, soprattutto, verso la pace.
È da quasi due anni, infatti, da quando sono presidente della Cei, che parlo di un’Italia da pacificare e da rammendare: nel suo tessuto sociale, geografico e politico. Penso fermamente che occorra un nuovo patto sociale tra tutti per restituire dignità, pace e futuro a questo Paese. L’Italia è un Paese fragile che necessita della solidità delle istituzioni e prima ancora dell’unità della popolazione intorno ad alcuni valori di fondo condivisi[4].
Questo vale tra l’altro in riferimento alle nuove generazioni, e lo sappiamo bene dopo il Sinodo dedicato ai giovani e alla loro vocazione, cioè al loro futuro in pienezza. Al riguardo è noto che la nostra è stata vista anche come «un’epoca in cui l’avvenire stesso sarebbe stato considerato senza avvenire».[5] Comprendiamo perciò da dove nasce la presa di coscienza che i giovani, perfino gli adolescenti, hanno dimostrato in varie nazioni d’Europa e del mondo nelle scorse settimane. Partendo dalla questione ecologica – profeticamente descritta come questione antropologica nell’enciclica Laudato si’ – i nostri ragazzi hanno protestato contro una società che non ha futuro, che restringe lo spazio per chi verrà dopo di noi, che non mantiene le promesse. Come credenti confidiamo invece in un Signore che mantiene ciò che promette, dalle origini del mondo alla pasqua di Cristo, al nostro oggi. Questa consapevolezza che ci viene dalla fede non deve però diventare alibi al disimpegno. I discepoli, infatti, sono invitati a seguire il Maestro, facendo propria la logica della fedeltà e del dono, smentendo una cultura che non riesce a dire in verità parole come speranza, domani, futuro, “per sempre”.
Ebbene, mentre pare che altre siano le doti di una società sicura e affidabile – la forza, il profitto, il consenso – io mi sento di raccomandarvi l‘idea di una comunità più umana, fraterna e accogliente, in cui la collaborazione, la pace e il recupero dell’identità comune siano riconosciuti come obiettivi e insieme come strumenti di cammino; e vi propongo di agire affinché una comunità siffatta possa realizzarsi per noi e per le generazioni che verranno dopo di noi. Solo nell’armonia e nella riconciliazione stanno le basi di una convivenza civile che guarda al domani: «Non c’è futuro per nessun Paese, per nessuna società, per il nostro mondo, se non sapremo essere tutti più solidali. Solidarietà quindi come modo di fare la storia, come ambito vitale in cui i conflitti, le tensioni, anche gli opposti raggiungono un’armonia che genera vita».[6] Sempre il Santo Padre, durante una veglia di preghiera, mostrava la vera sorgente della pace, del dialogo e del perdono: «Come vorrei che per un momento tutti gli uomini e le donne di buona volontà guardassero alla Croce! Lì si può leggere la risposta di Dio: lì, alla violenza non si è risposto con violenza, alla morte non si è risposto con il linguaggio della morte. Nel silenzio della Croce tace il fragore delle armi e parla il linguaggio della riconciliazione, del perdono, del dialogo, della pace».[7]

La scuola e la casa della comunione
Ma come giungere a questo? Come costruire una società più coesa? Come contribuire all’unità dei singoli in un popolo? Ciascuno al riguardo ha le proprie responsabilità; io vorrei sottolineare quelle che dobbiamo assumerci come credenti in Cristo. Il grande papa san Giovanni Paolo II, ormai vent’anni fa, invitò la Chiesa a riscoprirsi come casa e scuola della comunione, potremmo dire “scuola” perché “casa”: «Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo. […] Prima di programmare iniziative concrete occorre promuovere una spiritualità della comunione, facendola emergere come principio educativo in tutti i luoghi dove si plasma l’uomo cristiano, dove si educano i ministri dell’altare, i consacrati, gli operatori pastorali, dove si costruiscono le famiglie e le comunità».[8] In altre parole, noi avremo qualcosa da offrire al mondo e potremo donare una parola di pace, se le nostre comunità per prime saranno luogo di riconciliazione e di autentica vita fraterna.
Non stupisca l’insistenza sullo spirito di comunione. Noi ci proponiamo obiettivi grandi, anche in obbedienza al mandato missionario di Cristo che invita a portare la buona notizia sino ai confini della terra; ma rischiamo di perderci per strada, là dove siamo chiamati non a dire ma a essere, non a dichiarare ma a vivere. Per questa ragione la grande pedagogia ecclesiale ci invita, all’inizio di ogni eucaristia, a domandare perdono dei peccati e ci dona nel sacramento della penitenza uno dei gesti sacramentali che si possono ripetere più volte. Mi chiedo se nella predicazione e nella catechesi mostriamo a sufficienza il valore e la bellezza di questi strumenti di grazia. Quanto è importante accompagnare i bambini e i ragazzi, ma anche i neofiti che ricevono da adulti il battesimo, a celebrare la penitenza attraverso un percorso disteso nel tempo che li aiuti a vedere e scoprire la bellezza della vita cristiana e insieme a percepire la propria distanza da questa realtà. Il dono di un’identità nuova e trasfigurata si confronta con resistenze, rifiuti, chiusure che sollecitano una rinnovata immersione nell’amore fedele e rigenerante di Dio. In questa linea la proposta della stessa confessione non sarà avvertita come un “dovere” da compiere, ma come esperienza della misericordia del Padre che libera dal peccato, risana le nostre ferite, riplasma la nostra personalità e sostiene la nostra capacità di vivere relazioni nell’amore.
Sempre in ordine alla comunione vanno valorizzati anche altri momenti di vita fraterna. Lo stesso aiuto ai poveri non vale per quanto si dà in termini materiali ma perché spinge il nostro cuore all’apertura, alla solidarietà, a ritrovare il legame con ogni persona. E qui va richiamato che la fraternità non esiste in astratto: si impara guardando soprattutto alle famiglie, alla loro ricerca di ciò che unisce, alla tenacia nel donarsi, alla gratuità e alla gioia. Parlando della gioia vera che si gusta in famiglia, il Papa ha affermato che essa «viene da un’armonia profonda tra le persone, che tutti sentono nel cuore, e che ci fa sentire la bellezza di essere insieme, di sostenerci a vicenda nel cammino della vita. […] La famiglia che vive la gioia della fede la comunica spontaneamente, è sale della terra e luce del mondo, è lievito per tutta la società».[9] E lo stesso si potrebbe dire delle associazioni, delle parrocchie, delle comunità religiose, della Chiesa intera.
Aiutiamoci a essere “casa della comunione”, aiutiamoci a lasciarci riconciliare dal Signore, e potremo favorire il processo di unità cui è chiamata la collettività civile. Non pensiate che sia poca cosa il contributo che possono dare le comunità cristiane, anche piccole, e perfino i singoli credenti, alla trasformazione di un Paese. Sia consentito un riferimento letterario che per analogia potremmo applicare al nostro argomento. Circa un secolo fa, come è noto, visse per alcuni anni nella vostra città il grande scrittore irlandese Joyce. Tra le cose da lui scritte proprio a Trieste vi è una sorta di romanzo autobiografico: Ritratto dell’artista da giovane. In un passaggio il protagonista – che è appunto il giovane artista, lo scrittore – discute con un amico preoccupato del destino della loro patria, l’Irlanda al tempo non ancora indipendente. L’amico lo provoca: «Cosa credi: […] colle chiacchiere sulla bellezza e sull’immaginazione [di] far qualcosa in questa miserabile isola abbandonata da Dio?».[10] Noi pure potremmo essere tentati di chiederci se serve a questo nostro amato Paese il nostro riflettere sulla riconciliazione e praticare la fraternità. Ora io sono convinto che poche altre cose siano urgenti come questa e in poche altre cose, come questa, la Chiesa sia chiamata a dare un contributo difficilmente sostituibile. Altri potranno magari occuparsi al nostro posto di alcune iniziative o realtà che tuttora gestiamo in prima persona; nessuno potrà mai dispensarci dal testimoniare il vangelo della fraternità e della comunione.

Riconciliati in noi stessi e con Dio
Certo per essere uniti tra noi, per aprirci agli altri senza paura e con spirito positivo, occorre esserlo in noi stessi, nell’intimo di ognuno. Se infatti un contributo reale all’armonia del mondo è dato dalla testimonianza cristiana, a sua volta questa testimonianza esige la disponibilità a mettersi in gioco. Qui il discorso si fa più arduo, perché si scontra con quella realtà misteriosa e pesante di cui siamo segnati come creature umane e che la fede qualifica in termini di “peccato”: quella radice di sospetto, di alienazione, di separazione che poi si concretizza in tante scelte sbagliate. Potremmo esprimere tale realtà ipotizzando che, fosse per noi, staremmo lontani dal Signore e dagli altri, rinchiusi nel sospetto e nel rancore, divisi in noi stessi; saremmo consegnati all’egoismo. Il che è principio di caduta e distruzione, come afferma Gesù: «Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi».[11] Noi a volte siamo colpiti dalle case che crollano, per stare all’immagine evangelica, ovvero dalle vite che vanno a pezzi, dai gesti gravi e talora gravissimi che una persona può commettere. La cronaca è piena di fatti di questo tipo e viviamo nel timore che possa capire qualcosa di simile anche alle persone che conosciamo. Ma dovremmo essere in grado piuttosto di vedere cosa c’è alla radice di scelte che appaiono tanto incomprensibili, troppo spesso rubricate come raptus imprevedibili e irragionevoli. Ha affermato un grande esperto di teologia morale che «il peccato è originariamente un processo prima di mostrarsi come atto […]. Una crisi morale è sempre il sintomo di una profonda crisi di vita»[12] e forse potremmo spingerci a parlare di una crisi di identità, di una crisi nella comprensione di sé, di una crisi del sé.
Comprendete, carissimi fratelli e sorelle, che se le cose stanno così, non c’è proposito che tenga, non c’è sforzo o impegno valido. Solo se accettiamo di misurarci con il mistero di Cristo, invocando umilmente la salvezza che viene dalla Croce, lo scenario cambia: «lo Spirito santo ci rende possibile di rivivere la vicenda di Cristo, di essere la “memoria” di lui, della sua morte e della sua risurrezione».[13]. Davvero non esiste dono di sé se non quando il soggetto consegna la propria libertà all’amore del Padre, si lascia sospingere dalla grazia di Cristo e dall’azione dello Spirito.
Questo insegnamento esprime il senso del percorso di fede di colui che ha scelto di mettersi alla sequela del Signore Gesù. Per il discepolo la via sarà quella di Cristo, la via della Croce e della Risurrezione. L’uomo o la donna che abbracciano liberamente la Croce non solo lasciano illuminare dal sacrificio di Cristo le sofferenze e le prove che riserva loro l’esistenza, ma più globalmente camminano per diventare ogni giorno e in ogni cosa discepoli del Signore. Quanti scelgono come “disciplina” di vita il modello offerto da Gesù optano «per una “sapienza” che è la sua, lasciandosi condurre da un amore che è il suo». Qui sta la partecipazione del cristiano alla Croce, «dove qualcosa o qualcuno “muore” dentro di noi, perché l’uomo vecchio, quello che vorrebbe farci ripetere la storia di Adamo o di Caino, è “crocifisso” con Cristo. Ma proprio per questo qualcosa o qualcuno “risorge”, prende vita dentro di noi».[14] Coloro che non si sottraggono alla misericordia della Pasqua possono giungere, per grazia, alla vera trasformazione: diventare uomini e donne “nuovi”, pronti a vivere nella libertà dei “figli di Dio”, capaci di costruire fraternità e pace, perché ormai resi simili in tutto a Cristo. Il che significa del resto recuperare l’origine, quell’essere stati concepiti nella sapienza di Dio e generati alla vita uniti a Cristo, redenti, capaci di comunione, pienamente liberi. Contrariamente a quanto si pensa, riconoscersi peccatori e lasciarsi redimere dal sacrificio di Cristo non è dunque un esito che rende l’uomo meno umano o la donna meno autonoma;[15] al contrario: è realizzare oggi ciò che sin dall’inizio era nel progetto misericordioso del Creatore: è riconciliare gli uomini e le donne, ciascuno di noi, con l’essere stati creati a immagine e somiglianza di Dio, là dove non c’è divisione, odio, sospetto, separazione e lontananza.

Dai percorsi spirituali ai percorsi culturali
Possiamo tentare di proporre la prospettiva del ritorno all’unità originaria in un’ottica più larga, sapendo che la riconciliazione, frutto del dono di Dio, mette in gioco anche una serie di riflessioni; è insomma autentica questione culturale, come suggerisce il sottotitolo della serata. Certo sta a voi, che vivete qui, di intuire qualche opportuna pista di approfondimento da offrire agli uomini e alle donne che Dio ama, senza distinzione di provenienza e di confessione religiosa. Io mi permetto di evidenziare concisamente solo tre spunti che ricollego a quanto appena detto.
1) Penso anzitutto a quanto cambia lo sguardo sulla realtà a seconda di come intendiamo quel riferimento al porto e al mare cui ho già accennato. È tipica la concezione del Mediterraneo di coloro che – per esempio all’epoca delle crociate – definivano la terra di Gesù l’Oltremare. È evidente che per loro il mare segnalava un limite da superare per raggiungere la meta sperata, il Sepolcro di Cristo. Anche oggi pare che talvolta si immagini il mare come muro, come elemento distanziatore, come indicatore di un orizzonte dal quale non può apparire nulla di buono. È molto diverso da come immaginavano il Mediterraneo e soprattutto l’Adriatico la Serenissima o Carlo VI d’Asburgo che fece di Trieste un porto franco. Ma anche solo venti, trent’anni fa, il Mediterraneo rappresentava una speranza, un’occasione di ritrovato interesse, la percezione che una storia millenaria potesse esprimere il senso di una comune appartenenza, l’idea che questo mare più di altri avesse contribuito a far dialogare tra loro genti, culture e religioni diverse. Del resto non è forse questo il significato di Mediterraneo? Una sorta di spazio interno, di enorme lago compreso tra il Medio Oriente e Gibilterra, tra Venezia e Alessandria d’Egitto: il “mare tra le terre”, come dice il nome,[16] il teatro delle gesta degli eroi, la via d’acqua che fu solcata da Ulisse e da San Paolo. E per noi molto di più.
2) In questo quadro, del riscoprirsi come città del dialogo, potrebbe essere valorizzata in qualche modo quella vena di laicità presente da tempo nella cultura triestina. Mi chiedo con voi per una volta se non possa essere vista come una possibilità e un invito a battere strade inedite: che cosa è oggi la laicità? come costruire una società pluralista che possa fondare il legame sociale su elementi comuni senza per questo appiattire tutte le credenze e le tradizioni? Riconciliarsi andando al profondo di ciò che fonda la convivenza civile.
3) Penso infine, in questa linea, al fatto che la presenza a Trieste di una serie di centri di ricerca avanzati fa sì che la vostra città abbia la più alta concentrazione di ricercatori d’Italia:[17] come valorizzarli? quale futuro stiamo preparando per loro? come non deluderne le attese? Siamo in grado di proporre occasioni di dialogo, confronto, annuncio?
Gli esempi potrebbero essere molti, sia guardando al cammino squisitamente spirituale sia alle sfide di ordine culturale: una concordia è possibile in noi stessi e con gli altri perché ci fa riscoprire ciò che siamo alla radice, fin dalla creazione del mondo. Se invece ci si immagina fin dall’inizio lontani, separati o addirittura divisi, è difficile recuperare un’unità: la riconciliazione apparirà come un mito, affascinante ma romantico e irrimediabilmente astratto; un compito improbo. Molto più concreto diventa purtroppo un destino di alienazione interiore e di separazione dagli altri, accompagnato da uno stillicidio quotidiano di diffidenze; uno scenario dove le differenze di reddito, di costumi e di tradizioni non appaiono come stimolo alla conoscenza, allo scambio e alla collaborazione bensì alimentano freddezze e chiusure.
Di fronte a questa situazione occorre ricominciare da capo. Il che per noi cristiani significa al contempo dall’alto e dal basso: dall’alto della Croce, che ci dona la salvezza-riconciliazione per grazia di Dio, e dal “basso continuo” della vita quotidiana che si riscopre come possibilità – nella Chiesa e fuori della Chiesa – di vita fraterna, veramente umana, concorde; nella quale si condivide l’unità che ci vede raccolti come famiglia umana, come creature volute da Dio, come discepoli e discepole convocati da Cristo.
Noi credenti, al riguardo, abbiamo una responsabilità che non possiamo facilmente delegare. Auguro alla Chiesa in Italia e specialmente alla Diocesi di Trieste di essere all’altezza di questo compito e di questa missione.




[1] Cfr Rm 12,1ss passim.
[2] Z. Bauman, Città di paure, città di speranze, Castelvecchi, Roma 2018, 31.
[3] R. Danielis, Trieste, in «Il Mulino» 6/2017, 175- 178: 175 (il fascicolo monografico è intitolato Viaggio in Italia. Racconto di un Paese difficile e bellissimo).
[4] Da questa constatazione nasce prima l’appello alla “Nostra Diletta Italia”, che riprende le parole di Benedetto XV del 1915, e poi la “Preghiera per l’Italia.
[5] D. Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, Milano 201811, 52.
[6] Francesco, Incontro con il mondo della cultura, Aula Magna della Pontificia Facoltà di Teologia della Sardegna, Cagliari, 22 settembre 2013.
[7] Francesco, Intervento alla Veglia di preghiera per la pace, Sagrato della Basilica di san Pietro, 7 settembre 2013. Sul riferimento qualificante alla Croce si veda pure l’esordio del suo ministero petrino: «Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani» (Id., Omelia nella S. Messa con i Cardinali, Cappella Sistina, 14 marzo 2013).
[8] Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 43. Più oltre si legge: «Gli spazi della comunione vanno coltivati e dilatati giorno per giorno, ad ogni livello, nel tessuto della vita di ciascuna Chiesa, […] tra vescovi, presbiteri e diaconi, tra pastori e intero popolo di Dio, tra clero e religiosi, tra associazioni e movimenti ecclesiali» (45).
[9] Francesco, Omelia nella S. Messa per la giornata della famiglia, Sagrato della Basilica di San Pietro, 27 ottobre 2013.
[10] J. Joyce, Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, tr. it. di C. Pavese, Adelphi, Milano 1990, 261.
[11] Mc 3, 24-25.
[12] K. Demmer, Interpretare e agire, tr. it., San Paolo, Cinisello Balsamo 1989, 218.224.
[13] G. Moioli, Santità e peccato nella Chiesa, 177, dove si legge ancora: «Per questo l’uomo deve essere cambiato fino nel profondo, fino nel suo “cuore” […] in cui si radicano e prendono senso tutti i diversi comportamenti cristiani. Essere-santi è dunque una possibilità ed una realtà interiore: è dono e responsabilità di ogni persona».
[14] Ivi, 182.
[15] La puntualizzazione non riguarda solo le visioni laiciste; anche l’antropologia che si respira attualmente negli ambiti ecclesiali rischia di far prevalere «le categorie della ricerca di senso e del progetto di vita più che categorie squisitamente vocazionali, quali ad es.: il dono della vita, la riconciliazione con sé, il riconoscimento dei legami, il lasciarsi amare (dagli altri e da Dio)»: S. Currò, Catechesi e processo sinodale, relazione all’Incontro del CCEE per i delegati nazionali per la catechesi (Roma, 19 marzo 2019), pro manuscripto, 8.
[16] Per questi cenni, cf la sintesi degli storici A. Feniello – A. Vanoli, Storia del Mediterraneo in 20 oggetti, Laterza, Bari 2018, ma anche molteplici scritti di autori triestini come Claudio Magris e Paolo Rumiz.
[17] Cfr R. Danielis, Trieste, 178.