parallax background

Le comunità divise ovvero comunità in cui si apprendono stili di pace


Le comunità divise

ovvero

comunità in cui si apprendono stili di pace

link al podcast della catechesi



La comunione non è mai stata facile, neanche nella Chiesa. Anche gli Atti degli Apostoli ci testimoniano tensioni che portano a inventare, guidati dallo Spirito, modalità per sciogliere e rielaborare le contrapposizioni. La scelta di istituire i diaconi, e dunque di intervenire sui ministeri costitutivi della Chiesa, rimanda a questo clima di insofferenza, di crisi. Si tratta di gruppi etnici che si sentono discriminati, di dialoghi interrotti da riallacciare, di una carità e di un annuncio che vanno vissuti in modo corale-comunitario-comunionale perché da soli non si riesce. Gli Apostoli devono farsi aiutare, altrimenti la comunità si divide; devono suscitare responsabilità e investire di Spirito Santo persone che con loro condividono la missione di edificare la chiesa, di raccogliere il mandato di Cristo.

Qui possiamo leggere un tratto di Chiesa sinodale che rimane normativo anche per noi: oggi dobbiamo reinventare modalità di corresponsabilità per vincere le incombenti divisioni che attraversano gli Stati, i popoli, le chiese, le famiglie… Da ogni parte si sente l’esigenza che ci siano “mediatori”, artigiani di pace, facilitatori di dialogo e di reciproco ascolto. A dire il vero il demone della divisione si è sempre fatto sentire nella storia dell’umanità e della Chiesa: basti guardare a come tutte le religioni al loro interno sono frastagliate e spesso divise in gruppi che non si parlano; e così anche la storia che abbiamo imparato a scuola spesso è stata una sequenza di guerre, di contrapposizioni, di divisioni, di prepotenze.

Ho sentito questa frase: “Perché la scuola diventi una famiglia occorre che le famiglie siano la prima scuola”. Dice di un’alleanza educativa in cui ciascuno deve contaminarsi e non pensarsi in modo solitario e autoreferenziale. Gli stili dell’altro mi possono aiutare a migliorare il mio mandato, la mia missione. Qui vorrei descrivere degli stili di pace che si possono apprendere per contaminazione nelle comunità. Penso alle parrocchie e alle diverse associazioni e movimenti, ma in analogia a diverse altre realtà comunitarie.

  • - Imparare ad ascoltarsi. Io ho le mie ragioni, ma anche l’altro ha le sue e merita tutto il tempo di essere ascoltato, con stima e rispetto. Nelle modalità che lo mettono a suo agio. Senza che si senta subito giudicato, condannato. Anche il silenzio comunica: può essere segno di attenzione o di assenza, di rispetto e di approfondimento o di sfiducia nelle capacità dell’altro di comprendere. A noi scegliere di darvi un senso di intenso “ascolto”. “Ascolta Israele!”: la consapevolezza che Dio mi parla e che dunque devo anzitutto tacere è la premessa di ogni altro movimento. Ma a questo occorre allenarci.
  • - Imparare a parlarsi. La comunicazione non-ostile rimane un processo paziente e continuo. “Si è ciò che si comunica” dice il secondo principio del Manifesto della comunicazione non ostile: “Le parole che scelgo raccontano la persona che sono: mi rappresentano”. Se guardo a Gesù è proprio così: le sue parole raccontano chi lui è.
  • - Vigilare sul proprio cuore (per rielaborare rancori e sentimenti) e sulle parole (per evitare comunicazioni ostili). Gesù insegna che è dal cuore che esce ogni sorta di male (Mt 15,19): prima di arrivare alla violenza è il cuore ad averla meditata. E le parole spesso creano complicità o mandano altri strumentalizzandoli, reclutandoli nella vendetta.
  • - Il dolore dell’altro è unico. Non posso sminuirlo. Devo comprenderlo e semmai aiutarlo a portarlo, cioè a farmene carico senza indulgere ad assistenzialismi deresponsabilizzanti, ma anche comprendendo la singolarità di ogni dolore, di ogni ingiustizia, di ogni ferita e cicatrice. In quel bisognoso (affamato, assetato, profugo, malato, carcerato…) c’è una singolare presenza del Crocifisso a cui piedi fermarsi (Mt 25).
  • - La verità e la giustizia necessitano di amore e di perdono: altrimenti si riducono a sentenze di condanna. La verità nella carità, e la carità nella verità sono l’unico modo per evitare estremismi che poi deludono. L’irrigidimento su una verità-dottrina che non guarda negli occhi la persona con la sua fragilità come anche un buonismo che abbandona la persona alla sua debolezza e al suo precipitare nel male, portano solo a incrementare vittime arrabbiate. Papa Francesco ci domanda: ma perché siamo tanto restii a vivere la misericordia di Dio?
  • - La comunione, la pace necessitano processi lunghi e mai conclusi. Occorre la pazienza del contadino e la fantasia dell’artista. I processi educativi necessitano che ci si comprometta sempre in modo vero e sempre nuovo. Il tutto è subito non è possibile per far maturare un figlio: ci sono tappe di crescita. E così anche la pace necessita tappe in cui si accetta di convivere con pazienza con ciò che solo per il momento accettiamo e offriamo, ma in vista di ulteriori miglioramenti. Il Regno di Dio è presente, ma in germe. La pienezza ci sarà data in Paradiso.
  • - Promuovere l’altro perché si senta stimato e corresponsabile (anche se magari in una piccola cosa, adeguata alla sua possibilità) è la via perché ciascuno si senta appartenente e non utente della comunità. Anche chi sbaglia ha bisogno di sentirsi ancora stimato e amato: Dio fa così. In forza del battesimo ognuno è conformato a Cristo re-sacerdote e profeta! Restano carismi differenti, ma a partire dalla medesima dignità filiale che non viene meno neanche quando siamo umiliati dal nostro peccato.

Il Battista è il precursore di Gesù, è il più grande dei profeti, ma resta il precursore del Messia. L’apostolo – e questo vale sempre, anche per noi – deve ricordarsi di rimanere anzitutto un discepolo di Cristo, l’unico vero Maestro. Se vogliamo che le nostre comunità sappiano educare a stili di pace occorre che si mantengano con lo sguardo fisso sul Signore che da ricco che era si è fatto povero per venirci incontro in questa nostra umanità. E poi in ascolto di Lui. Questo il primo stile: non abbiamo una ricetta da imporre, ma un incontro da vivere, una relazione da costruire come un generare qualcosa di nuovo e inedito in cui misteriosamente Dio vuole essere presente anche nell’apparente piccolezza. Come quella del bambino di Betlemme, del Crocifisso di Gerusalemme.

Servono comunità che sanno GENERARE la pace: essa dopo essere stata immaginata, inventata, va generata a partire da piccole comunità che la fanno essere, le danno vita: non sarà perfetta, ma essa comincia ad esserci, a mostrare le sue fattezze, a suscitare interesse.

✠ Enrico Trevisi
Vescovo di Trieste