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I popoli in guerra ovvero Percorsi di pace tra gli uomini


I popoli in guerra

ovvero

Percorsi di pace tra gli uomini

link al podcast della catechesi



La “teoria della guerra giusta” poneva condizioni molto rigorose. Chi la evoca oggi non la conosce. Era nata un po’ alla volta lungo i secoli e sempre per limitare la guerra, restringerla e costringerla a ridimensionarsi. Per fare la guerra (lo jus ad bellum) si chiedeva: 1) una causa giusta; 2) un’autorità competente; 3) una retta intenzione; 4) rimedio estremo; 5) proporzionalità; 6) probabilità di successo. E una volta scoppiata la guerra (lo jus in bello) si prescriveva 1) la discriminazione tra obiettivi civili e obiettivi militari; 2) la proporzionalità di ogni azione militare rispetto agli esiti ragionevolmente sperati. Tutte condizioni che nelle attuali guerre sono disattese. Per esempio nelle guerre sono molto più i civili a morire che non i militari (pensiamo a quello che sta succedendo a Gaza); la probabilità di successo è assai problematica se pensiamo che anche Russia e Stati Uniti hanno perso la guerra in Afghanistan; la causa giusta è sempre più difficile da definire: basti pensare che nella prima guerra mondiale i cattolici italiani dichiaravano giusta la guerra contro l’Austria e i cattolici austriaci dichiaravano giusta la guerra contro l’Italia. Esattamente come i vescovi ucraini dichiarano giusta la guerra contro la Russia e i vescovi russi dichiarano giusta la guerra contro l’Ucraina. E la retta intenzione quando si fa una guerra non riusciamo a rintracciarla, visto che poi sempre si aggiunge rancore, prepotenza, vendetta e rapina delle materie prime ai Paesi vinti e assoggettai. E questo vale in Africa, in Iraq e ovunque…

Siamo in questa terza guerra mondiale a pezzi, come ha detto papa Francesco proprio nella nostra terra, a Redipuglia il 13 settembre 2014 nella Messa al Sacrario Militare: “una terza guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni…”.

Certo azioni di difesa militare sono previste da Gaudium et spes e Giovanni Paolo II e Benedetto XVI mutuando categorie dal linguaggio del diritto internazionale e della diplomazia hanno parlato con clausole ben precise di “diritto all’ingerenza umanitaria” o di “dovere di proteggere”. Ma di fronte alle stragi degli innocenti perpetrate da tanti eserciti, con divise e bandiere differenti, rimaniamo scossi. Ci sono azioni militari che vanno ben al di là di un dovere di proteggere quando si seminano morte e distruzioni che travalicano ogni discriminazione tra civili e militari. Siamo sgomenti, inorriditi. Non ci saremmo immaginati ancora tanta crudeltà.

Ormai sempre si teme l’escalation, cioè l’intensificazione e l’allargamento del conflitto. E talvolta con disinvoltura si parla di armi nucleari e del loro utilizzo. E poi tutti diffidiamo di numerosi Capi di Stato o di Governo perché li riteniamo accecati dall’orgoglio e dal narcisismo, senza alcuno scrupolo morale.

In questo contesto occorre almeno protestare e dire la nostra indignazione per come vengono gestite le crisi tra i popoli. Queste potrebbero essere le tesi su cui spingere la riflessione e provocare anche la discussione culturale e politica:
  • Lavorare per mettere al bando le armi di distruzione di massa (atomiche, batteriologiche e chimiche). Purtroppo solo il Papa ha il coraggio di rilanciare la questione. Troppi stanno in silenzio e sembrano rassegnati. Disarmiamo il mondo dalle armi nucleari, batteriologiche e chimiche!
  • Chiedere nuove restrizioni al commercio delle armi. Non possiamo indignarci per le guerre e poi spingere le nostre navi militari a fare pubblicità alla vendita delle armi (prodotte da aziende pubbliche e private) anche a Paesi governati da autocrati e dittatori. E sappiamo che anche il nostro Paese su questo si è tristemente compromesso.
  • Spingere sempre più a rilanciare la diplomazia e a negare la legittimità del fare la guerra. Di fronte alle tensioni crescenti tra gli Stati (pensiamo anche alle continue frizioni tra i Paesi dei Balcani) occorre ci siano Autorità indipendenti capaci di mediare e cercare soluzioni alternative alla guerra.
  • In particolare occorre chiedere ancora la Riforma dell’ONU e delle varie Agenzie Internazionali, perché possano essere arbitri nelle dispute tra le nazioni. Non ci si illude che diventino arbitri perfetti ma che sappiano allontanare e continuamente rimandare la tentazione del “farsi giustizia da sé”.
  • Investire sulla resistenza non-violenta e sulla mediazione per tutelare le minoranze specie nelle zone frontaliere. E Trieste comprende bene la questione, sia per la minoranza di lingua slovena presente in Italia che per quella di lingua italiana presente in Slovenia e in Croazia.
  • Quando a combattere sono i popoli (spesso si tratta di guerre civili) la ragione spesso non è tutta da una parte (perché per molto tempo non si è riusciti a parlarsi, a mediare, ad andare incontro alle sofferenze dell’altra parte) mentre le vittime spesso sono totalmente innocenti: come i bambini sgozzati da Hamas, come i bambini bombardati a Gaza o in Ucraina o in Siria. La prevenzione della guerra, con una grande capacità di mediazione nelle tensioni, soprattutto riguardo alle minoranze transfrontaliere, è una urgente via da rilanciare.
  • Occorre investire sullo sviluppo: troppi popoli sono sfruttati, con lavoratori sottopagati, condizioni di lavoro indegne e pericolosissime e senza tutela alcuna. Terre rapinate con meccanismi finanziari ed economici da rivedere. Paolo VI già nel 1967 nella Populorum Progressio aveva scritto che “Lo sviluppo è il nuovo nome della pace”. Ogni volta che collaboriamo allo sviluppo integrale di qualche pezzetto del mondo, lavoriamo per la pace.

Ritengo sia immorale l’arricchirsi con la guerra e il formarsi di patrimoni ingenti attraverso le guerre e il commercio delle armi. Mentre la povera gente muore, mentre si bombardano gli ospedali, le chiese, le scuole, le case c’è gente che arricchisce e specula producendo e vendendo armi. In ciò non c’è nulla di cristiano. E penso sia razionale mettere alte tassazioni sui guadagni delle industrie di armi perché poi la ricostruzione e i danni collaterali alla guerra sono caricati sulle spalle di tutti (aumento dei prezzi, inflazione, ricostruzione…). E il dolore e la morte pesano per sempre!

Quando avviene l’incarnazione del Figlio di Dio, in quella notte santa gli angeli cantano ai pastori la Gloria di Dio e la pace agli uomini amati dal Signore. Credere e vivere la fede nel Dio che si fa uomo significa immettersi in questa circolarità di gloria del Signore che ci avvolge, di gioia grande annunciata e di pace tra gli uomini amati dal Signore (cfr. Lc 2,8-14). Non si tratta solo di spegnere le armi ma di contribuire al progetto di salvezza per questi uomini amati dal Signore. Dunque festeggiare il Natale, l’incarnazione del Figlio di Dio, significa annunciare il fondamento della Pace che pure rimane un compito a noi affidato. E infatti Isaia aveva parlato del Messia come del Principe della Pace (Is 9,6) ma che però va accolto e ascoltato.

Quanto più accoglieremo Gesù e la novità della sua Grazia, quanto più saremo aperti al costruire la pace, a prenderla da Dio e impiantarla nelle nostre relazioni.

Per fare la pace, dopo averla immaginata, occorre inventarla. INVENTARE la pace significa che non c’è un copione da recitare ma una vita in cui spendersi e rischiare, pazientemente, accettando anche i tempi lunghi della storia e dei popoli ma svolgendo il proprio ruolo da protagonisti… di pace. Per inventare la pace occorre certamente correggere le economie di guerre, tassare gli extra-profitti dell’industria bellica, rilanciare il diritto internazionale e le sue istituzioni.

✠ Enrico Trevisi
Vescovo di Trieste